La magia della neve che cade, soffice, gelida ma cotonosa, tanto che ci invita ad una passeggiata; la temperatura, in realtà non troppo fredda, è l'ideale per scoprire, irresistibile, la sensazione di imprimere in quel manto, ma quasi con trattenuta e infantile delicatezza, le nostre impronte.
È indubbio che nella pulsione che ci induce a compiere quegli atti si celi una misteriosa volontà, forse ansiosa, di ricerca della nostra identità. Una sorta di sentimento naif, in cui, almeno per un poco, sgorga in noi, verso quell'elemento naturale, una spontanea “corrispondenza di amorosi sensi”. I paesaggi di Carlo Pigino, quelli sotto la neve, anzi, proprio durante la nevicata, sembrano alludere, appunto, a questo segreto, per cui altri critici, ben più ferrati, sostanzierebbero la loro analisi con precisi rinvii alla occulta dimensione dell'inconscio. Ma tant'è, preferisco fare un passo indietro, nel rispetto del lavoro del pittore.
A me sembra - non dico proprio a prima vista e, per questo, voglio tentare di addentrarmi nella questione - che la pittura di Carlo Pigino mostri, intanto, o se vogliamo, in più, rispetto alle banali apparenze, l'intenzione di conseguire, nel suo intimo, con una sua sottile e giusta discrezione, un delicato equilibrio tra pittura colta e spontaneità, come si dice, naive, o naif.
A parte che già qualche dubbio viene a proposito della stessa pittura, cosiddetta naif, per cui, cioè, quella sua tanto proclamata immediatezza, complessivamente pertinente a quelle specifiche forme di pittura, dipenda, in realtà, da modelli derivanti da codici espressivi ben definiti - (e per questo di per sé culturalmente strutturati, direi, a priori e tutt'altro che di ispirazione schiettamente spontanea e “popolare”) - si deve invece riconoscere a Pigino di porre in termini ben diversi la questione. La componente riferibile alla sua spontanea immediatezza, come, si è detto, ponendosi come uno dei termini, se vogliamo, degli estremi del suo equilibrato programma visivo, in realtà, scava in una dimensione fantasmatica estranea a quelle prospettive.
Il suo veritiero essere naif corrisponde ad altri parametri di affondo psicologico, come si è tentato di dire all'inizio. Dall'altra, invece, i tagli compositivi, che supportano l'impostazione delle sue immagini, costituiti da scorci più o meno cittadini, rientrano a pieno titolo nella tradizione pittorica moderna e contemporanea, piemontese e non solo, che risale quanto meno ai modi del paesaggismo della scuola di Rivara, per attraversare tutta la prima metà del Novecento piemontese.
L'arduo tema della neve - già ostico e nello stesso tempo caro agli Impressionisti francesi - occupa presto l'attenzione di tanti maestri piemontesi, per cui, volendo procedere a ritroso nel tempo, possiamo andare da Francesco Menzio, a Carlo Terzolo, Leonardo Roda e Cesare Maggi, Matteo Olivero e Giuseppe Bozzalla, Giuseppe Augusto Levis, Vittorio Cavalleri, Lorenzo Delleani e giù giù, fino a Calderini, Reycend, Alby e, interessantissimo, a Prospero Riva (nel lontano 1876).
Esso, per altro, giunge fino a noi per tanti rivoli sparsi, ma indenne, al di là delle varie e articolate stagioni delle avanguardie. Indenne, proprio perché, anche se del tutto diverso e poco o per nulla consenziente rispetto a quelle e, poi, al rimbombante silenzio degli epigoni tardo-novecenteschi di quelle, corrisponde ad una esigenza genuinamente attuale di confronto, sia con il mondo naturale, sia con l'ambiente artificiale, quello degli spazi urbani, che sono il necessario contesto quotidiano della nostra esistenza.
Se la pittura di Carlo Pigino ci è più nota per la sua particolare affezione al tema dei paesaggi innevati, il confronto, in parallelo, con gli altri suoi scorci - che non saprei se meglio definire “vedute” paesaggistiche, non invernali, al di là di quanto si è detto sulla maggiore difficoltà pittorica nella raffigurazione del candore della neve - mi pare che non possa che confermare l'interesse che esse suscitano, ribadisco, come una ulteriore e valida occasione di delicato incontro, di equilibrio e intima fusione, tra dichiarazioni di affetti spontanei – a loro modo esclusivo e, volendo, strettamente naif - e il rispetto e l'immedesimazione, vivacemente interpretata, in forme altrettanto rigorose e tutt'altro che modali, di una “tradizione” figurativa ormai oltre che secolare.
Essa ci appare genuinamente reinterpretata da Pigino in forme profondamente diverse e necessariamente distanti dagli ormai tanto scontati rituali, riferibili alle molteplici e recenti pratiche artistiche, sostanzialmente dedite a scontate rivisitazioni neo-manieristiche delle formule messe a segno dalle avanguardie, più o meno storiche.
Paolo Nesta