E’ di pochi giorni fa la decisione del TAR, in seguito ad un ricorso, di sciogliere la giunta comunale di Roma del sindaco Gianni Alemanno, per non aver rispettato le “quote rosa”, che impongono la presenza di un certo numero di donne tra i componenti della giunta stessa. Il TAR con la propria sentenza non ha stabilito una percentuale di riferimento, ma ha motivato la decisione affermando che per governare bene serve un equilibrio sostanziale tra donne e uomini.
La normativa di riferimento è il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, secondo il quale “Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.”
Quindi da una parte gli enti locali (comuni e province) devono nel loro statuto «stabilire norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna», e «promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali» e poi naturalmente adoperarsi perché ciò non rimanga solo sulla carta.
Personalmente ritengo che questa imposizione ed immissione coatta nelle amministrazioni pubbliche ( e più recentemente nei CDA) di una quota di membri di sesso femminile sia una regola che stride pesantemente con il concetto di meritocrazia. Una persona deve essere nominata sulla base delle proprie capacità, non perché è obbligatorio inserire nello staff qualcuno del suo sesso. È una condizione ormai accertata che la percentuale di donne partecipanti alla politica è estremamente bassa. Se alle elezioni, nonostante la presenza – imposta dalle quote rosa – di donne, nelle liste, sono stati eletti degli uomini, significa che anche le votanti donne hanno scelto un candidato maschio.
Se si vuole sconfiggere la cultura maschilista, che rende necessarie leggi per portare donne nei CDA e nelle giunte, servono campagne di informazione ed educazione, in modo che, qualora una donna venga scelta tra vari candidati per ricoprire un certo ruolo, ciò avvenga perché ella ha capacità pari o superiori al candidato uomo, non perché “si deve”. Solo in questo modo si potrà creare un sistema che possa stare in piedi e che funzioni autonomamente per gli anni a venire.
Indipendentemente però se tale norma sia condivisibile o meno, rimane fatto che si tratta di una legge dello stato italiano.
Quale è la situazione in provincia di Cuneo? Sbirciando i regolamenti delle sette sorelle, solo quello di Mondovì in modo esplicito “promuove e favorisce la presenza di entrambi i sessi nella Giunta”, gli altri o parlano in modo generico di pari opportunità oppure evitano l’argomento. Quanto alla presenza di donne in giunta il primato va a Saluzzo dove le donne sono quatto su otto; nelle altre città la presenza scende: a Savigliano ed Alba due su otto, a Cuneo due su nove, a Mondovì e a Bra una su otto, ultima Fossano dove non ci sono donne. In Provincia? La Provincia ha recepito il testo unico, e le donne in giunta sono 3 su 11 (compreso il presidente).
Gli statuti che non prevedono il riferimento legislativo sono già di per sé deficitari, vulnus che si aggrava quando le “pari opportunità” non vengono di fatto rispettate. Se la legge è uguale per tutti anche nella provincia di Cuneo qualche giunta potrebbe essere a rischio azzeramento.
Federico Pace
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