COMPRENDERE LA SIRIA: LA COMPLESSITÀ DELLE DINAMICHE
La comprensione del conflitto siriano passa attraverso l'approfondimento di molteplici fattori: le dinamiche sociali, gli assetti politici, la posizione geografica, le relazioni internazionali, il sostegno reciproco tra regimi autarchici. E proprio l'approfondimento è stata la chiave di lettura della quarta edizione di Voci scomode, l'appuntamento annuale dedicato alla libertà di stampa nel mondo e alle testimonianze dei giornalisti costretti all'esilio, organizzato lo scorso 28 novembre a Torino dal Caffè dei Giornalisti, in collaborazione con il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell'Università di Torino e La Maison des Journalistes di Parigi.
UN CONFLITTO, TANTE GUERRE
Spiega Rosita Ferrato, presidente del Caffè dei Giornalisti: “Il titolo dell'edizione 2017 – Quante guerre si combattono in Siria? La frammentazione del racconto mediatico – rende subito evidente il focus della narrazione, perché questo conflitto, così vicino (geograficamente) e così lontano (dall'opinione pubblica) dall'Europa non solo è il più inaccessibile ai giornalisti, ma è anche il più difficile da raccontare. Nel Paese, infatti, non si combatte una sola guerra ma tante: sul palcoscenico siriano si muovono ribelli, esercito e milizie siriane; Hezbollaha libanesi e milizie sciite straniere; Arabia Saudita, Iran e Israele; Stati Uniti, Russia e Turchia”.
LA LIBERTÀ DI STAMPA IN ESILIO
A raccontare ciò che accade nel Paese – indicato da Reporter senza frontiere come “il più letale per gli operatori dei media” – sono stati due giornalisti siriani rifugiati a Parigi presso La Maison des Journalistes, Raafat Alomar Alghanim e Shiyar Khaleal. Entrambi hanno conosciuto in patria le minacce, la prigione, le torture e infine l'esilio; entrambi accusano Bashar al-Assad delle violenze e degli omicidi perpetrati a centinaia di migliaia di vittime, ben più numerose di quelle causate dal terrorismo, ma a loro avviso meno “appetibili” dal punto di vista mediatico; entrambi denunciano il mancato sostegno dell'Europa a un conflitto eccezionalmente drammatico del quale hanno parlato da diverse prospettive gli altri ospiti, i giornalisti Mazen Darwish (da Berlino, intervistato da Federico Ferrero), Laura Tangherlini e Lorenzo Trombetta.
GIORNALISTI TESTIMONI O ATTIVISTI?
Il racconto è intenso, forte, diretto; il confine tra testimonianza e attivismo è labile e spesso nullo; emerge anche il ricordo di Padre Paolo Dall'Oglio, il gesuita rapito in Siria e del quale non si hanno notizie da oltre quattro anni: Raafat Alomar Alghanim e Shiyar Khaleal non sono certi della sua sorte, ma delle responsabilità del regime sulla sua sparizione, sì.
QUANDO LE DOMANDE SONO PIÙ IMPORTANTI DELLE RISPOSTE
Più delle risposte date al moderatore Giuseppe Acconcia colpiscono le domande che i due giornalisti pongono al pubblico in sala (e, idealmente, all'opinione pubblica occidentale): “Come è stato possibile lasciare che tutto ciò accadesse?” dice Raafat Alomar Alghani, apprezzato fotografo di guerra, regista e attivista della prima ora (ha partecipato alla costituzione del "Consiglio dei Rivoluzionari di Salaheddine", il quartiere che ha dato il via ai movimenti di ribellione contro il regime di Assad): con orgoglio rivendica il suo essere stato una “voce scomoda” in Siria, in Giordania, in Arabia Saudita e di esserlo anche oggi in Francia (è attualmente rifugiato a Parigi, presso la MDJ), ed effettivamente la denuncia delle connivenze tra regimi dittatoriali e dell'assenza di spirito umanitario verso il popolo siriano in Europa (e negli Stati Uniti) è rabbiosa. “Siamo stati costretti a fare la rivoluzione, non c'era altra scelta”. L'onda lunga delle Primavere arabe ha inasprito la violenza del regime, che ha reagito colpendo duramente i manifestanti, perlopiù giovani studenti. “Quelle stesse manifestazioni – continua – il regime le ha definite “pacifiche” nei consessi internazionali: ma se fossero state davvero tali, perché nei primi sei mesi sono morte oltre 15 mila persone?”. Di quelle violenze è testimone, le ha filmate e denunciate, subendo per questo due anni di carcere e torture.
Shiyar Khaleal guarda invece al futuro, ma ciò che vede è scoraggiante: “Come è possibile parlare di pace, di ricostruzione e sviluppo, di un domani per il martoriato popolo siriano se la diplomazia internazionale – anche quella riunita a Ginevra – non mette in discussione la permanenza al potere di Bashar al-Assad e la presenza, nel Paese, di criminali di guerra?” Occorre estirpare il male alla radice, è il suo ragionamento, e questo lo porta ad essere convinto che “nessuna soluzione politica potrà essere raggiunta a fronte della permanenza del dittatore in Siria”. Lui, corrispondente per Sky News Arabia, cofondatore dell'Unione dei giornalisti curdi siriani e, più di recente, del Gruppo di lavoro per i Detenuti Siriani, ha pagato con la detenzione la militanza attiva: nel 2013 è stato arrestato nel corso di un raid contro i giornalisti, e nonostante il tribunale avesse ordinato la sua liberazione dopo pochi mesi, rimane in carcere sino al 2015, subendo torture. Giunto in Francia l'anno successivo, ha trasformato la sua esperienza in testimonianza, collaborando a varie campagne di denuncia e sensibilizzazione. “Oggi, però – confida al pubblico in sala – non utilizzerò alcuna slide perché sono stanco di mostrare immagini di sangue e violenze”. In questi anni di esilio le ha mostrate ovunque, ma non è bastato a far sì che il problema siriano diventasse una priorità nell'agenda internazionale.
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